L'illusione della mano di gomma

La visione ha un ruolo importante nella costruzione della rappresentazione del corpo. Ad esempio,
l’esposizione ripetuta ad un’immagine distorta del proprio corpo può modulare la metrica percepita
di quello stesso distretto corporeo (Taylor-Clarke, Jacobsen e Haggard, 2004). La percezione del
nostro corpo non si basa quindi sulle sole informazioni presenti nella corteccia somatosensoriale
primaria o, in generale, sulle sole informazioni provenienti dai sensi corporei.
Alcune sorprendenti risposte arrivano dalle ricerche condotte nell’ultimo decennio sull’illusione
della mano di gomma (o dell’arto finto).
I primi resoconti su questa illusione risalgono alla prima metà del secolo scorso, quando Tastevin (1937)
notò che un osservatore poteva in alcuni casi confondersi e giudicare come proprio un dito finto che spuntava
da sotto un panno, quando il suo vero dito era nascosto a pochi centimetri di distanza. Diversi anni più tardi
Welch (1972) noto che questo errore di attribuzione sembrava non permeabile alle conoscenze dell’osservatore;
in altre parole, anche quando gli osservatori sapevano che il dito osservato apparteneva allo sperimentatore
avevano comunque la sensazione che potesse essere proprio. L’interesse per questo tipo di illusione si è però
definitivamente affermato nel 1998 quando Matthew Botvinick e Jonathan Cohen pubblicarono sulla rivista Nature
una descrizione breve ma sistematica di questa illusione.
Gli autori chiesero a un gruppo di soggetti di sedersi a un tavolo, appoggiando la loro mano sinistra sul piano
e dietro a uno schermo verticale opaco che ne impediva la vista. Visibile di fronte al soggetto era invece posta
una copia in gomma a dimensione reale di una mano sinistra con relativo avambraccio, e la consegna al soggetto
era semplicemente quella di mantenere lo sguardo su questo arto finto. Nel frattempo lo sperimentatore stimolava
con due pennelli la mano sinistra del soggetto e l’arto finto, cercando di sincronizzare quanto più possibile
l’istante delle pennellate sulle due mani.
Dopo 10 minuti di stimolazione i partecipanti riportavano la curiosa sensazione di percepire il tocco del pennello
nella posizione in cui vedevano stimolata la mano finta. Inoltre, se venivano invitati a indicare la posizione della
loro mano sinistra puntando sotto il tavolo con 1’indice della mano destra, i partecipanti tendevano sistematicamente
a indicare una posizione della loro vera mano sinistra spostata verso la posizione dell’arto finto, come se il loro senso
di posizione per la mano sinistra fosse stato in qualche misura ricalibrato dalla ripetuta esposizione all’arto finto.
Infine, la maggior parte dei partecipanti erano propensi a credere che la mano artificiale potesse effettivamente essere
la loro mano (Botvinick e Cohen, 1998).
Il semplice contesto sperimentale della mano finta, quindi, è in grado di evocare almeno tre illusioni distinte:
- Provocare sensazioni tattili riferite a un arto finto (cattura visiva del tatto verso una posizione dalla quale non dovrebbe derivare alcuna sensazione tattile)
- Provocare una ricalibrazione della posizione percepita del corpo nello spazio (cattura visiva della propriocezione verso una posizione nella quale non e presente alcun distretto del nostro corpo)
- Influenzare ciò che il soggetto ritiene essere una possibile parte del proprio corpo.
Come aveva già notato Welch (1972) la sensazione di essere i proprietari del proprio corpo (solitamente descritta con il termine ownership) sembra essere assai poco influenzata dalle conoscenze dell’osservatore; questo risulta evidente dal fatto che tutti i partecipanti allo studio di Botvinick e Cohen avevano ben chiaro, da un punto di vista cognitivo, che l’arto finto non era altro che una copia in gomma di un arto e che certamente non apparteneva al loro corpo. Tuttavia, alla domanda “Avevi la sensazione che l’arto di gomma fosse la tua mano?” la maggior parte di essi dava una risposta più che affermativa.
Negli ultimi dieci anni una gran quantità di studi ha cercato di definire le condizioni di insorgenza di questa illusione, cercando al contempo di offrirne una spiegazione (per una recente rassegna vedi Makin, Holmes e Ehrsson, 2008). Per quanto l’illusione possa emergere anche senza stimolazione simultanea della mano del soggetto e della mano finta (ovvero attraverso la semplice osservazione dell’arto finto, come nel caso descritto in origine da Tastevin – vedi anche Pavani, Spence e Driver, 2000), ad oggi è assodato che essa tende a scomparire quando lo sperimentatore stimola le due mani in maniera asincrona (Tsakiris e Haggard, 2005). Questo fenomeno viene solitamente spiegato in base al fatto che la nostra mente tende ad attribuire un’origine comune agli eventi multisensoriali temporalmente sincroni (il cosiddetto assunto di unitarietà; Welch e Warren, 1980), mentre attribuisce origini distinte agli eventi multisensoriali temporalmente disgiunti. Dunque, un tocco alla propria mano e una pennellata su un arto finto che si verificano simultaneamente vengono attribuiti ad un’origine comune, mentre un tocco e una pennellata che si verificano in due istanti diversi vengono attribuiti a due origini distinte. Inoltre, poiché la posizione esatta della mano finta nello spazio è molto ben identificabile (in quanto segnalata dalla modalità visiva), mentre la posizione della mano reale oltre lo schermo lo è solitamente molto di meno (in quanto segnalata dal solo senso di posizione), la nostra mente tende ad attribuire questo evento unico dove l’ha visto accadere e non dove l’ha percepito attraverso i sensi corporei, fidandosi quindi in misura maggiore del canale sensoriale in grado di fornire l’informazione più affidabile (Armel e Ramachandran, 2003).
Se ci limitassimo a questa interpretazione del fenomeno basata sulla rilevazione di corrispondenze fra eventi sensoriali (un tocco e un evento visivo temporalmente sincrono), le implicazioni dell’illusione dell’arto finto sarebbero sorprendenti. Riprendendo la domanda che ci siamo posti all’inizio del paragrafo dovremmo concludere che è possibile percepire un qualsiasi oggetto dell’ambiente come parte del nostro corpo, purché si verifichino sensazioni tattili e visive temporalmente correlate. In altri termini, se al posto della mano finta vi fosse un blocchetto di legno i soggetti dovrebbero essere indotti a credere che quel pezzo di legno e parte del loro corpo, o che la loro mano si è trasformata in un parallelepipedo inerte di legno. Ma questo, in realtà, non accade. Per quanto sia possibile generare l’illusione dell’arto finto con versioni ben poco realistiche di una mano (guanti da cucina riempiti di cotone, arti carnevaleschi o videoproiezioni bidimensionali, solo per fare alcuni esempi), l’illusione svanisce quando la mano finta viene ruotata di 90 gradi rispetto all’orientamento della mano del soggetto (Pavani, Spence e Driver, 2000), quando viene eccessivamente rimpicciolita (Pavani e Zampini, 2007), quando viene sostituita con una mano destra mentre la mano nascosta è la sinistra o quando, per riprendere l’esempio precedente, al posto della mano finta viene sistemato un parallelepipedo di legno (Tsakiris e Haggard, 2005).
Questi ulteriori risultati mettono ben in chiaro che l’inganno della visione su ciò che può appartenere al nostro corpo è in realtà soggetto a vincoli, che presumibilmente hanno a che fare con ciò che la mente è disposta ad accettare come immagine plausibile del corpo. In altre parole, la costruzione multisensoriale della nostra rappresentazione del corpo sulla base delle sole informazioni in ingresso è limitata dalle rappresentazioni del corpo che la nostra mente possiede già.
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